Momenti dolorosi

È da un po' di tempo che sto veramente male. Un dolore intenso, quasi insopportabile, che pochi avranno provato. Non riuscivo a capire a cos'era dovuto, eppure stavo male, male davvero.
Ebbene, oggi ho sfilato i calzini dai piedi. Avevo delle unghie lunghissime, alcune gialle, ed altre incarnite... senza contare lo stato generale di piedi: calli screpolati sul tallone, sudore rappreso misto a sporco tra le dita e quant'altro.
Non avevo nulla da fare, così decisi da andare in bagno a tagliarmi un po' quelle unghie. Mi sedetti per terra, con le mie forbicine cromate in mano. Io inizio a tagliare le unghie sempre dall'alluce destro, non so bene il perché. Infilo le forbici sotto l'unghia lercia, vedo lo sporco che fuoriesce leggermente dall'unghia. Continuo a tagliare, fino ad ottenere un frammento di unghia giallastro a forma di mezzaluna. Dopo averlo annusato, per schifarmi dell'odore da voltastomaco, lo ripongo poco vicino al mio piede, come farò anche con tutti gli altri. Qualche dito ha delle parti leggermente incallite, che io taglio e metto in bocca, masticandole come fossero gomme da masticare – con un gusto lievemente meno intenso. Fin qui tutto bene, ma con il piede sinistro ho avuto i problemi. Le forbici erano ormai sporche, ma io non curante ho voluto subito tagliare anche l'unghia dell'anulare sinistro. Infilo le forbici sotto l'unghia come sempre, ma questa volta faccio troppa pressione e la punta si conficca nella tenera carne, ovviamente insieme a tutta la sporcizia che era presente sulle forbici. Tolgo tutto di scatto, e rimango con un unghia tagliata a metà, sporca di sangue marrone, che mi brucia. Mi bruciava in un modo che voi non potreste capire.
Ero lì che cercavo di tamponare la ferita con il tappeto ornato da peli pubici, quando ho uno straordinario flashback. Mi ricordai di quella volta che due mani mi colsero alla sprovvista, ma non proprio di quel momento, ma di quelli immediatamente seguenti. Ecco, lì provavo le stesse sensazioni. Schifo misto a dolori lancinanti. Che abbia avuto le unghie lunghe anche quel giorno?

Aposiopesi dell'innamorato

Scaraventato momentaneamente sull'orlo d'un baratro, sono un corpo inebriato dalla vertigine. Nella frustrante inconsapevolezza i miei pensieri più frivoli sfuggono senza ritegno, mi provocano un'ilarità senza contesto. Che allegria effimera!
Titanico dissenso tra due pensieri opposti: gli esisti mi annoiano, monotonia d'un presente già vissuto – vorrei ritirarmi, fuggire vincitore da una battaglia senza senso.
Surrogato della natura, non posso far altro che sottomettermi ad essa, annuire alle sue fallimentari peripezie. Ma come riuscire in questo intento? La coscienza – unica caratteristica che rende l'uomo detestabile dalle bestie – come potrebbe permettere ciò? Come trovare nel sesso qualcosa di buono, un atto degno di rispetto, senza fargli indossare la maschera dell'amore? Coloro che si ostinano nel definire il sesso come qualcosa di ameno – sprovvisti del velo offuscatore dell'amore -, non sono altro che animali sbraitanti rivalsa.
Amore: veleno per la coscienza, rivelatore di splendori inesistenti, scusante per gli assillati dalla carne. Assediato dall'amore faccio fatica a declinarlo: difficile resistere al fascino dell'irrazionalità - romanzo esalante gioia. Barcollante nella felicità, ubriacato di speranze: tutto ciò mi atterrisce.
Eppure la coscienza non scompare, scruta imperterrita i miei atti e mi deride, e quando riconquista il possesso del mio corpo è come ritrovarsi un macigno sul capo. Pochi attimi di amore – che siano minuti come ore, giorni che passano troppo in fretta – non bastano a colmare altrettanto tempo gettato a rimuginarci sopra. Bisognerebbe non pensare.
Pensare – grande farneticazione sul nulla - mette nei guai, ed è forse solo per pigrizia che le spiegazioni non collassano immediatamente sotto il peso della loro irragionevolezza. Se non penso agisco e se penso non agisco: salvezza dell'indaffarato e rovina del nullafacente.

(Roteare, questa è l'unica vera soluzione. Ridotti in metastasi non possiamo far altro che scrollarci di dosso tutti i pensieri, darli impasto all'aria, prosciugarci di tutte le convinzioni malsane.)

Sulla defecazione

Ben pochi si rendono conto delle sconcertanti verità che cela l'atto della defecazione, e troppe sono le persone che si emozionano difronte ad un parto definendolo un miracolo della vita. Io vorrei tanto sforzarmi per trovare le differenze che spingono gli uomini a sotterrare il primo ed a innalzare verso il cielo il secondo, ma purtroppo mi è possibile senza il minimo sforzo.
Che ci sia una differenza tra un neonato ed uno stronzo è lampante: mentre uno nasce immaturo, matura e poi marcisce, l'altro nasce già decomposto liberandosi dal tedio della decomposizione – altre differenze sono completamente fuori luogo. Alla nascita siamo semplicemente un escremento immaturo, una massa organica che ricopre gelosamente il nostro spirito costringendolo ad attendere la sua marcescenza. Se quindi un nascituro è simbolo di vita, un escremento ingabbiato nel retto è simbolo di morte, il miracolo della morte. E se durante la defecazione si può provare del disgusto – che si affievolisce con l'abitudine – è solo perché il nostro corpo non accetta una fine del genere, mentre allo stesso modo si vorrebbe risbucare ogni giorno dalla vagina della madre per preservare la propria giovinezza.
Gli escrementi andrebbero osannati: essi sono prova morente di vita vissuta, sono il nostro futuro, e noi li produciamo ogni giorno con distacco, senza dargli la meritata importanza. Durate la vita ci prodighiamo, a volte con entusiasmo altre con prostrazione, nel produrre qualcosa di utile – che poi potrà essere utile per noi o per la società. La defecazione – dal momento che è l'eliminazione di scorie più massiccia che il nostro corpo è in grado di produrre – non ha rivali, perché scartare il marcio che c'è in noi risulta liberatorio nonché profetico, dal momento che un giorno sarà il mondo a fare lo stesso con noi.
Il prodotto di questo viscerale bisogno è arte, e se qualche individuo si permette di dichiaralo tale non deve essere preso come un provocatore. Essa è arte primordiale, più in basso della quale semplicemente non c'è arte, com'è vero che dopo la morte non c'è più vita. In generale le opere d'arte sono
feccia più o meno camuffata per apparire gradevole, ma se si cominciasse a struccarle, a privarle dei loro eleganti abiti, si ritroverebbero pian piano quei viscerali prodotti, liberatori, sporchi e disgustosi che il nostro corpo – e quindi anche la nostra mente – non può sottrarsi dal generare.

(La vita, perpetuata ormai da millenni - e dunque sgualcita e sbiadita - riesce ancora a contorcere gli intestini di individui pensanti o meno dando luogo a quel fantastico atto chiamato defecazione. Ed è proprio qui che si raggiunge la comprensione assolutistica del tutto - ovvero del niente - senza dimenticare le incessanti e sconvolgenti peripezie del pensiero umano.)

Mary

Mary ritorna a casa, si chiude la porta alle spalle ed appende la giacca bagnata all'attaccapanni. I suoi capelli piombi d'acqua lasciano cadere limpide gocce sul pavimento.
Sua madre è seduta sulla tavola della cucina, con una manica della maglia strappata via. Sangue coagulato sotto al naso e graffi e lividi e lacrime. Si porta giù la gonna all'altezza delle ginocchia, tenendo il capo nascosto.
I momenti tristi sono le migliori memorie se la tua vita è stata una merda.
Mary si siede a terra, in un angolo della cucina, abbracciandosi le gambe. Quasi come a proteggersi da un pericolo imminente. Ascolta i singhiozzi di sua madre che scandiscono la fuoriuscita delle lacrime, che una dopo l'altra formano rigagnoli tra quelle pallide guance vagamente colorite da lividi violacei. Volta la testa verso destra dirigendo lo sguardo oltre la porta, dall'altra parte della stanza. Là c'era quel bastardo di suo padre che camminava avanti e indietro. Era impaurita, consapevole di quello che era appena successo.
Il seme di suo padre scivolava, ancora caldo, tra le cosce di mamma. Domande come “Cos'è successo?” o “Perché piangi?” sarebbero state inutili. Mary aveva già visto troppe volte scene del genere. Se certe cose accadono una volta, possono diventare un abitudine.
Mentre mamma scende dalla tavola e scappa a testa china in bagno, le sue lacrime si affievoliscono. Mary la segue, entra in bagno, e chiude la porta a chiave. Poi si appoggia ad una parete ed il suo sguardo si perde nel vuoto.
«Come stai piccola?» Chiede la mamma a Mary, mentre si siede a gambe divaricate sul bidet.
«Io...Io sto bene» Risponde
«Non mentire» Dice mamma mentre apre il rubinetto ed aspetta che esca dell'acqua tiepida. «Bene è solamente una risposta di cortesia. Risposte più credibili sono: male, abbastanza bene o benissimo. Tu vuoi semplicemente farmi credere di stare bene.»
Immaginate vostra madre che si mette a dire cose come quelle in una situazione del genere.
«Bé, non mi va male. Di più. Sei contenta?» Controbatte Mary con voce irritata.
Mamma si toglie con un po' d'acqua quelle tracce di liquido biancastro dalle sue cosce. È piena di abrasioni e graffi da unghie, che le sue mani umide cercano di detergere delicatamente.
«Mi dispiace molto» Si porta dei suoi capelli biondi dietro l'orecchio, e volta lo sguardo verso Mary.
«Farti nascere è stato un errore, e ora sei tu a pagarne le conseguenze.»
Una madre normale non avrebbe mai detto una cosa del genere. Non dopo essere stata stuprata da suo marito. Non mentre si lava la vulva.
Ogni volta che mamma veniva violentata diventava un' altra persona. Tutto quello che era successo prima e durante non lo ricordava più, da quel momento ricominciava una nuova vita. Mary, invece, ricominciava a disperarsi. A disperasi per quella cazzo di situazione. Non era raro che pensasse che sua madre fosse una pazza, una che provasse piacere a farsi picchiare. Non era mai andata dalla polizia, mai una denuncia e mai una richiesta d'aiuto. E non aveva mai provato a tagliargli le palle a quell'animale. Le lacrime erano l'unico modo per sfogarsi. E poi. E poi ricominciava una nuova vita, che poteva durare ore come giorni.
Si sente sbattere la porta d'ingresso. Suo padre se né appena andato in chiesa. C'andava sempre, probabilmente a chiedere scusa a Dio per quello che aveva appena fatto. Chiedeva scusa a Dio e poi a mamma, e poi la picchiava di nuovo, come se ogni volta fosse la prima.
Mary si volta di scatto verso mamma e dice «Devi smetterla di lasciarti trattare così, potresti anche ammazzarlo. Non sarebbe una perdita per nessuno»
«Sì invece. Sarebbe una perdita per tutta la società, e per me prima di tutto. Certa gente nasce per fare soffrire le altre persone, e senza di loro nessuno migliorerebbe. Rimarremmo per sempre degli stupidi ragazzini arroganti» Risponde mamma mentre si alza dal bidet.
«Non c'è vita senza sofferenza»

Un'allegra passeggiata in campagna

Il cielo era grigio e nuvoloso, sembrava dovesse cominciare a piovere da un momento all'altro, le nubi erano grigie e molto pesanti, opprimenti. Stavo facendo una tranquilla passeggiata in campagna, tra vari fiumiciattoli dall'acqua fangosa. Percorrevo una strada di ghiaia, era tutto silenzioso, si sentivano solo le mie scarpe affondare tra i sassi. In lontananza intravedo una ragazzina seduta sull'argine del fiume, indossava un vestito di tela bianca, strappato in vari punti e sporco di terra. Era tutta sporca di terra in realtà, ed anche i suoi capelli neri erano sporchi ed unti.
Avvicinandomi rivolse lo sguardo verso di me e mi fece un sorriso. Aveva anche i denti sporchi di terra, pensai che ne avesse mangiata un po', sarebbe stato segno di invidiabile intelligenza. L'atmosfera era molto calma: niente vento, li uccellini sembravano estinti da tempo e l'acqua del fiumiciattolo era praticamente stagnante.
Era piccola, ma molto carina. Continuava a guardami con quegli occhioni neri, ed io rimanevo immobile. Avevo una voglia pazza di toccare il suo sesso, sentirlo bagnato e poi violentarlo con il mio membro. Mi faccio schifo per questo.
Mi avvicinai di colpo e spingendola con forza la buttai per terra, tra il fango che puzzava d'uova marce. Mi gettai violentemente su di lei, piccola ed indifesa, le allargai quelle cosce minute per far spazio al mio ampio bacino. Era molto impaurita, aveva il terrore negli occhi, si fece la pipi addosso che le colò calda attraverso il glabro inguine. Le strappai via quelle mutandine zuppe d'urina, ed il mio glande gonfio di sangue stava già sfiorando le sue labbra di donna. Lei piangeva, le lacrime le lasciavano dei solchi in quel viso imbrattato di terra mentre io la tenevo ferma premendo sulle costole. Le sue gambe scalciavano l'aria afosa circostante. Non vedevo l'ora di penetrare quella piccola vagina tanto morbida e giovane, ma tutt'un tratto mi levai di colpo da quel piccolo corpo indifeso. Bruscamente, come quando metti in bocca qualcosa di avariato e sputi tutto fuori d'istinto. Lei non se ne accorse nemmeno, e continuò a piangere.
Ebbene, le presi la testa e gliela immersi nel fiume. Piccole e grandi bolle d'aria ricoperte di fanghiglia venivano in superficie. Quello era il suo alito, i suoi gemiti di pietà, probabilmente non molto diversi da quelli che avrebbe emesso durante l'orgasmo. Piano piano le bolle diminuivano, ed il suo corpo si rilassava sempre più, fino alla morte.
Era morta lì, tra il fango ed i vermi. La mia mano stringeva ancora forte al sua nuca. Allentai la presa, e con un calcio gettai quel corpicino in mezzo al fiume, e mentre mi rimettevo il cazzo nelle mutande, lo osservai galleggiare e dopo un po' affondare.
Mi voltai, ripresi da terra le sue mutandine ancora umide di pipi e me le misi in tasca. Così ripresi la mia passeggiata con un lieve sorriso sul mio volto.